NON NEL NOME DI DIO. Confrontarsi con la violenza religiosa
Il discorso sulla violenza e le sue espressioni nella Bibbia, per essere fatto correttamente, deve cercare di entrare nella mentalità e nelle valutazioni etico-religiose degli autori e dei redattori biblici.
Ho intenzionalmente tralasciato la lettura di tipo lessicale filologico, privilegiando la presentazione di momenti particolarmente pregnanti e illustrativi del tema della violenza, già avvertiti con acutezza nell’antichità, dei primi secoli del cristianesimo. Cedrone e Marcione, saranno i due iniziali autori di riferimento. L’analisi di René Girard (La violenza e il sacro) traccerà il tema a partire da una sensibilità contemporanea, attraverso analisi socio-antropologiche, che mostreranno la portata originale e non nuova del tema stesso.
D. Tonelli, «Il tema della violenza è anzitutto un problema ermeneutico».
LA «GUERRA SANTA» E LA «SCOMUNICA NELLA BIBBIA»
I concetti di «guerra santa» (espressione in realtà inesistente nell’AT) e di ḥerem («scomunica», ma il termine riveste altri significati e deve essere compreso alla luce di un’attenta critica letteraria e storica dei testi biblici) possono essere capiti solamente se collocati all’interno del lungo e difficile cammino di fuoriuscita dalla violenza e dalla sacralizzazione della violenza che fu il cammino di Israele all’interno del mondo in cui viveva. La presenza massiccia di espressioni e immagini di violenza nella Bibbia è dovuto proprio al fatto che essa non occulta, ma smaschera la violenza e la denuncia come peccato fondamentale dell’uomo. Nel lento cammino del rivelarsi del volto del vero e unico Dio, Israele comprende non solo che Dio sta dalla parte di chi subisce violenza piuttosto che dalla parte di chi la commette, ma anche, con la figura del Servo di JHWH del Deutero-Isaia, che la salvezza passa non attraverso la rimozione della violenza, ma attraverso la sua assunzione da parte del giusto e innocente Servo nel nome di Dio.
TUTTI GLI DÈI SONO UNO
MONOTEISMO EVOLUTIVO E INCLUSIVO
Non dovremmo considerare il monoteismo come un rivale del politeismo, ma piuttosto come la sua maturazione. Dovunque il politeismo è associato a una certa facoltà speculativa e, dedicando un po’ di tempo alla speculazione, si svilupperà prima o poi in monoteismo. Mi pare che il principio sia ben illustrato nella storia della religione indiana. Alle spalle degli dèi sorge l’Uno, e gli dèi, oltreché gli uomini, diventano solo i suoi sogni. Questo è uno dei modi di risoluzione del Molteplice. […] Gli dèi diventeranno aspetti, manifestazioni, incarnazioni parziali o temporanee di ogni unico potere (C.S. LEWIS, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Torino 1969, p. 56).
Già nel XVII secolo, quando vennero coniati i termini monoteismo e politeismo si affermava che tutte le religioni erano fondamentalmente monoteiste, dal momento che riconoscevano solo un dio supremo come origine e creatore dell’universo. Esistono diverse strade che sembrano portare dal politeismo al monoteismo e due modi diversi per ridurre il numero degli dèi e trasformare la molteplicità in unità. Uno, che possiamo definire «tradurre gli dèi», è tipico della Mesopotamia, ma si diffonde in tutto il mondo antico in età classica. L’atro consiste nella creazione di un pantheon dalla struttura spiccatamente gerarchica, con un dio in posizione dominante che tende non solo a superare di gran lunga gli altri dèi, ma finisce anche per assorbirli. È quello che si chiama «summodeismo»: la fede in un dio supremo, molto più autorevole rispetto agli altri membri del pantheon. Nel primo modello l’unità è una questione di elementi comuni, dipende dalle caratteristiche che due o tre dèi, o addirittura tutti, condividono; nel secondo modello è una questione di potere.
NON AVRAI ALTRO DIO – IL MONOTEISMO ESCLUSIVO
La caratteristica davvero peculiare, innovativa e, possiamo dire, rivoluzionaria, della religione biblica (o, per essere più precisi, deuteronomica) è espressa dal comandamento «Non avrai altro Dio!», per il quale non si trovano paralleli nelle religioni basate sul concetto dell’unicità divina.
Che cosa significa il termine rivoluzione? Di certo non una rivoluzione politica, forse neppure un evento storico. Qui abbiamo a che fare con un fenomeno, che definiamo a-posteriori: una rivoluzione a posteriori, un’impresa mnemonica, legata alla memoria.
L’abominio dell’idolatria.
La violenza (sempre da intendersi come tendenza non come conseguenza) è intrinseca non all’idea di un unico Dio, ma all’esclusione di altri dèi; non all’idea di verità, ma alla persecuzione della falsità. Non è detto che la distinzione tra verità e falsità debba trasformarsi in violenza.
L’adempimento delle Scritture. Una «vita come citazione». La vita è adempimento della scrittura. Il termine ebraico utilizzato per indicare il martirio è «santificare il nome», che corrisponde alla prima prescrizione del Padre Nostro: «Sia santificato il tuo nome».
Tema sempre centrale è l’impresa mnemonica non storica che della violenza il popolo biblico compie.
L’ETÀ ASSIALE E LA SEPARAZIONE TRA STATO E RELIGIONE
L’emancipazione della struttura di potere politico-cosmologica del mondo antico non è una conquista del mondo biblico. Essa si inserisce piuttosto nel più ampio contesto delle trasformazioni culturali che si ritiene abbiano coinvolto, più o meno contempo- raneamente, quasi tutte le grandi civiltà del mondo antico, da Roma alla Cina, intorno alla metà del I millennio a.C.
Il comune denominatore di questi mutamenti può essere individuato nelle diverse forme in cui le varie culture seppero fare un passo indietro e guardare oltre, ovvero osservare le condizioni e le istituzioni della vita terrena da una certa distanza, per valutarle alla luce dei nuovi concetti trascendentali di verità e ordine. Queste visioni trascendentali permisero a individui straordinari di guardare oltre la realtà data per criticarla, riformu- larla o addirittura rivoluzionarla.
Ecco come può essere riassunta questa teoria:
Il periodo compreso tra il 600 e il 300 a.C. fu caratterizzato da un’esplosione della consapevolezza umana. Nelle culture della Cina, dell’India e della regione mediterranea, per quanto distanti dal punto di vista geografico, furono sollevati contemporaneamente pressanti interrogativi sul significato della vita umana. Da Confucio in Cina a Socrate in Grecia, da Buddha in India al movimento dei profeti in Israele, i pensatori affrontarono in modo nuovo l’enigma dell’umanità. Qual è lo scopo della vita? Le nostre esistenze sono governate da qualcosa di più alto del fato? Di che cosa siamo responsabili? Come possiamo dare un senso alla sofferenza e alla morte? (K. JASPERS, Origine e senso della storia, Mimesis, Milano 2014, pp 19-20).
LEGITTIMITÀ DELLA VIOLENZA: LA TORTURA DELL’ERETICO
Nello sviluppo della chiesa occidentale, dall’età costantiniana fino al basso medioevo, s’è assistito a un progressivo espandersi dell’uso della violenza. Non si è trattato del mero acceso dei cristiani ad atti contrari all’evangelo, ma dello strutturarsi giuridico di una prassi nella quale la violenza ha trovato posto. Pur non essendosi esaurito col XIII secolo, questo processo trova in quel momento storico un vertice, costituito dalle norme che impongono l’uso della tortura sull’eretico, come conseguenza necessaria di una concezione della cristianità come realtà politica.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
•J. ASMANN, Non avrai altro Dio, Il Mulino, Bologna 2007
•J. ASMANN, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il Mulino, Bologna 2009
•M. BOMBELLI, L’albero, le radici e le fronde. Itinerario storico-filosofico delle religioni, Castellanza 2016
•T. RÖMER, Dieu obscur, Labor et Fides, Genève 2008 (it., I lati oscuri di Dio. Crudeltà e violenza nell’Antico Testamento, Claudiana, Milano 2008)
•T. RÖMER, L’invention de Dieu, Seuil, Paris 2014
•D. TONELLI, Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2014