
Ri-CONOSCIAMOCI. Un inevitabile confronto
PREMESSA
Il mio intervento intende affrontare il tema della religione, articolando un discorso non tanto sulle religioni, ma piuttosto con le religioni, per proporre un dialogo e un cammino comune. Quello che dirò cercherà di collocarsi su un piano che possiamo definire di universalità, non ristretto cioè a una tradizione particolare, quella cristiana per intenderci, sebbene da essa prenderà spunto e sarà altresì in essa radicata.
Vorrei compiere una riflessione che è anzitutto un piccolo contributo alla CONSAPEVOLEZZA di che cosa sono le religioni, perché, credo, solo avendo consapevolezza di che cosa siano le religioni, potremo cogliere ciò che è comune e ciò che le differenzia. Ma, soprattutto permette agli uomini religiosi di RICONOSCERSI a vicenda e altresì di riconoscere le persone che non si riconoscono in nessuna religione storica, come persone che non sono comunque estranee all’interesse, al bisogno religioso, in una parola a ciò che possiamo definire IL SENSO.
Riconoscimento reciproco che è alla base del mutuo rispetto, richiesto da tutti e rivolto a tutti, e che è la condizione primaria e minimale di ogni convivenza e perciò di ogni dialogo.
RELIGIONE COME ESPRESSIONE DELLA COSCIENZA
E VALORE COMUNITARIO
Da subito ci chiediamo che cosa significhi religione, in che cosa consista la religiosità. Rispondiamo, che per religione intendiamo un determinato atteggiamento della persona umana che, rileggendo la propria storia che fin dalla sua origine si ritrova lacerata e disorientata (pensiamo a quanto il testo della Genesi dice in proposito: 1. Lacerazione del rapporto con Dio: Adamo dove sei? Mi sono nascosto, perché mi sono accorto di essere nudo. 2. Con l’Altro: Chi ti ha detto di mangiate dell’albero? La Donna che mi hai messo accanto mi ha ingannato. 3. Con la terra: Lavorerai ed essa ti produrrà cardi e spine) si rivolge a un OLTRE, a una TRASCENDENZA, attraverso una INVOCAZIONE, una RICHIESTA.
Questa INVOCAZIONE, possiamo dire, è la prima richiesta di senso, è la prima forma di liberazione dal male, è il primo tentativo di compiere il bene, con tutta la fatica che questo comporta [«Video meliora proboque deteriora sequor», Metamorfosi, Ovidio, che richiama il senso delle parole di Paolo nella lettera ai Rm 7, 18-19: «c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo»].
Se la intendiamo in questo modo possiamo dire che la religione è un po’ come la STRUTTURA dell’esistenza e della coscienza umana, che cerca di mettersi in relazione con qualcuno.
Ma, e questo è il secondo aspetto, la religione ha anche una dimensione di condivisione, è anche COMUNITÀ (di ricerca, di testimonianza, di fede, di vita), perché, appunto, condivisione di un orizzonte di senso, di una interpretazione del mondo, e quindi di una cultura e di una forma di vita.
LIBERTÀ:
CRITERIO FONDAMENTALE
Possiamo però dire che, né l’invocazione di senso, né la condivisione di senso possono essere veri se non accadono all’interno di una libertà di ricerca, di adesione e di appartenenza. La fede non può essere comandata o imposta, ma deve essere trovata personalmente come risposta all’invocazione personale.
La libertà religiosa come diritto personale inalienabile è oggetto di un discorso che sembra ovvio, ma forse, non lo è mai stato e non lo è nemmeno oggi. E QUESTO è un aspetto fondamentale del dibattito odierno, del posto che deve occupare la religione nella sfera pubblica.
La libertà religiosa come diritto appartenente a ogni uomo, intesa anche solo come libertà di coscienza, significa poterla manifestare come LIBERTÀ ESTERNA. Cioè poter avere la piena facoltà di esprimere, di parlare, di agire, di proporre i propri valori e i propri sentimenti interiori.
Ma, la giustificazione di questa libertà esterna deriva dalla ferma consapevolezza che ogni uomo è una persona umana che ha una LIBERTÀ INTERNA.
QUESTA LIBERTÀ è, dunque, lo spazio vitale della religione, il luogo in cui vive e respira la vita religiosa, possiamo dire, l’essenza della religione, il suo momento centrale, il suo obiettivo e il suo approdo finale.
Aggiungiamo allora che senza libertà non si da ricerca di senso, né invocazione di salvezza, né fede, né convinzione, né vita comunitaria.
Così intesa la libertà, da presupposta diventa criterio di autenticità di una religione, di ogni forma di religione. Diventa condizione essenziale, senza la quale non sarà possibile essere pienamente uomini e uomini in dialogo.
RELIGIONI:
PLURALITÀ – ASPETTI COMUNI – DIFFERENZE
Se è vero ciò che abbiamo detto, lo è altrettanto se diciamo che il riconoscimento di aspetti condivisibili, comuni, comporta anche la sottolineatura di differenze negli atteggiamenti religiosi dei singoli e delle comunità. Proprio nella diversità: pensiamo alla ricerca del senso, a come arrivare a dare un senso alla vita, a come comportarsi di conseguenza (ai linguaggi che si usano per comprendere questo, ai gesti materiali che le religioni usano), in ciò troviamo la creatività e l’interesse che le religioni sono in grado di esprimere. È qui allora, aggiungiamo, che ritroviamo la possibilità di incontro tra le religioni, nell’incrocio e a volte nella sovrapposizione, nella combinazione, nella fusione, ma forse anche nella coincidenza si trova la grandezza dell’espressione religiosa.
La pluralità e la differenza religiosa è dunque strutturalmente indispensabile, anche se comporta fragilità e rischi. L’aspetto positivo consiste in una capacità di sapersi relazionare in maniera organica, sensata, originale, positiva, ma, esiste anche l’aspetto di difficoltà che segnala la potenzialità di dissidi, conflitti, a volte anche acuti, dovuti ai diversi modi d’intendere e d’esprimere i valori stessi nei quali si crede, come accennato sopra.
Atteggiamento, quest’ultimo che potrebbe portare alla restrizione o addirittura all’interruzione della comunicazione tra realtà religione, al punto di trasformarsi in comportamenti di rivalità se non di ostilità.
L’altro non compreso viene facilmente percepito come una minaccia e quindi come un nemico, da escludere o da combattere, da eliminare o da sottomettere. Spesso infatti la combinazione tra la diversità di interessi e la diversità di modi di vedere e di comportarsi porta a conflitti, a pretese di superiorità o di sopraffazione, di imposizione dei propri codici a tutti gli altri. Ciò avviene anche in nome del possesso della verità, della rivelazione religiosa. Questo è il grande pericolo che abbiamo di fronte e che dobbiamo cercare di evitare.
IMPATTO DELLA RELIGIONE NELLA SFERA PUBBLICA
Fin da subito facciamo notare il contributo positivo delle religioni nello spazio pubblico: a) esse (le religioni) [lo abbiamo già accennato] offrono una forte capacità alla motivazione di uno scambio solidale (pensiamo all’idea di fratellanza, che porta alla condivisione, presente in tutte le forme di religione); b) un significativo supporto pre-discorsivo (pre-politico) delle norme di valore e delle regole della vita sociale (pensiamo al valore della famiglia, del lavoro, e così via); c) una risposta di «senso» per la vita individuale e collettiva (anche qui, possiamo sottolineare in primis il rispetto che tutte le religioni hanno per la vita), difficilmente sostituibile; d) non solo, ma anche un preciso substrato di identità individuale e collettiva (che sia culturale, etnica, nazionale, sovranazionale o universalmente umana).
Prima abbiamo accennato al tema della libertà, riferendola al diritto basilare dell’uomo, come criterio fondamentale per l’agire della persona, ora torno ad accennare a questo valore rivendicandolo come bene sociale, valore vitale che l’autorità civile è chiamata a proteggere e favorire.
Richiamo alcuni passaggi del discorso alla città fatto dall’Arcivescovo Scola in occasione dell’apertura dell’anno sociale del 6 dicembre 2012, che aveva per titolo: L’EDITTO DI MILANO: INITIUM LIBERTATIS, dove, in occasione del XVII centenario dell’Editto di Milano del 313 d.C. (313 – 2013, IVe XXI secolo), riproponeva il tema della «Libertà religiosa» come tema centrale in una società plurale e secolare. Diceva l’Arcivescovo, mettendo subito a tema la questione fondamentale: Anzitutto il tema della «libertà religiosa», che a prima vista suscita un consenso molto ampio, possiede da sempre un contenuto tutt’altro che ovvio. Si impiglia, infatti, in un nodo alquanto complesso, in cui si intrecciano almeno tre gravi problemi: a) il rapporto tra verità oggettiva e coscienza individuale, b) la coordinazione tra comunità religiose e potere statale e c) dal punto di vista teologico cristiano, la questione dell’interpretazione dell’universalità della salvezza in Cristo di fronte alla pluralità delle religioni e di mondovisioni (visioni etiche «sostantive»).
Il modello al quale la società civile si è ispirata, seguendo sempre il Discorso dell’Arcivescovo, per affrontare questa questione (la libertà religiosa), è quello francese della Laicità dello Stato (la laicité), che è sempre apparsa come la risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie ai gruppi minoritari. Dice l’Arcivescovo: Esso si basa (il modello francese) sull’idea di in-differenza, definita come «neutralità», delle istituzioni statali rispetto al fenomeno religioso e per questo capace di costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Ma, prosegue l’Arcivescovo, l’idea stessa di «neutralità» si è rivelata assai problematica, perché essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla. Ecco il nodo fondamentale: Lo Stato deve garantire la libera iniziativa della società civile, governando i fenomeni che in essa si presentano e non tentando di gestire, anche a fin di bene, le libere iniziative dei componenti la società civile stessa.
Neutralità della funzione pubblica dovrebbe significare garanzia da parte dello Stato, in maniera democratica, affinché tutti abbiano la possibilità di esprimere e di manifestare la propria identità religiosa. Così sarebbe allora da intendere l’in-differenza: non discriminazione, non diversità, non differenza appunto.
(Richiamo ancora un passaggio di un testo dell’Arcivescovo nel suo ultimo intervento alla città: Milano e il futuro dell’Europa):
In una società plurale, per sua natura tendenzialmente conflittuale, la laicità è tale solo se crea le condizioni per garantire la narrazione di tutti i soggetti personali e sociali che la abitano, in vista di un reciproco riconoscimento. Solo così è possibile una convivenza tendenzialmente armonica. L’espressione “Europa famiglia dei popoli” (papa Francesco) dice bene il compito storico che la attende: cioè una convivenza della diversità e di integrazione nell’orizzonte di senso proprio in un umanesimo personalista.
Per raggiungere tale armonia, è necessario il riconoscimento pratico dei beni da condividere. Non si tratta di elaborare a tavolino un accordo tra diverse mondovisioni, è necessario dare valore politico, attraverso precise procedure, al bene sociale pratico primario del vivere insieme. Questo dato sociale deve essere elevato al rango di bene politico e promosso dalle istituzioni. Per essere fondato non richiede alcun accordo ideologico preventivo. All’interno di questo spazio, garantito a tutti, potrà esercitarsi il dinamismo del riconoscimento dialogico tra i soggetti sui singoli contenuti di valore, in un confronto, serrato e sempre aperto, tra mondovisioni diverse. Elaborando, in modo adeguato, questa comune decisione, il bene pratico politico dell’essere in società potrebbe costituire quell’universale politico che il processo di secolarizzazione nel corso della modernità ha fatto smarrire (A. Scola, Milano e il futuro dell’Europa, pp. 35-37).
Ma, non siamo ingenui, a questo punto si inserisce un tema altrettanto importante e fondamentale: quello della formazione e dell’educazione alla convivenza civica.
Riporto il pensiero di un filosofo tedesco vivente, Junger Habermas: La formazione dell’opinione e della volontà nella sfera pubblica democratica può funzionare solamente se i cittadini soddisfano determinate attese circa la civiltà del loro comportamento anche al di la di profonde divergenze in materia di fede e di visioni del mondo (in: Tra scienza e fede, Ed. Laterza, Roma-Bari 2006, VIII). Dunque, grande responsabilità di coloro che sono chiamati a governare il bene comune, lo Stato, ma anche responsabilità dei cittadini, dei credenti, che riconoscono nello spazio pubblico la possibilità di una convivenza possibile. Qui si apre il campo per il compito educativo e di formazione, specifico delle religioni.
Proprio perché stiamo parlando di religione nello spazio pubblico di una società multiculturale e plurale, introduco, come elemento positivo del dibattito la parola e il concetto di TOLLERANZA.
Tutti conosciamo la genesi di questo termine: esso nasce in ambito religioso (attorno ai secoli XVI – XVII a seguito della Riforma protestante) come limite dell’altrui credenza e come accettazione o rifiuto della diversità. Non c’è inclusione senza esclusione. Solo condividendo si assolve alla vera tolleranza (Goethe, Francoforte 1749, Weimar 1832, poeta, drammaturgo, scrittore tedesco).
Termine, questo, che mi permette di richiamare il concetto sopra espresso, quello di neutralità, inteso come garanzia che lo Stato deve offrire a tutti di potersi esprimere per il bene comune. Ancora Habermas: L’imparzialità delle ragioni per l’accettazione o il ripudio dell’altro viene assicurata da una procedura inclusiva di formazione della volontà che richiede agli interessati il vicendevole rispetto e la reciproca assunzione di responsabilità. A ciò corrisponde un invito alla neutralità dello Stato, in maniera da offrire poi il fondamento normativo per la generalizzazione dei diritti religiosi in diritti culturali (Cit., p. 157).
Mi sembra questo un passaggio importante, perché ci fa compiere un passo in avanti. La condivisione passa attraverso la fatica di far diventare cultura (vita vissuta, vita vera) la propria credenza religiosa. Nell’altro, noi dobbiamo rispettare il concittadino anche quando riteniamo il suo pensiero errato, e il suo corrispondente modo di vivere infelice. La tolleranza impedisce che una società pluralista venga dilaniata, come comunità politica, da conflitti tra visioni del mondo.
[Voltaire (?): Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire].
Creare un minimo comune denominatore di spazio comune condivisibile, perché si esprima in cultura partecipata, significa che la forma di vita prescritta dalla propria religione, o l’ethos inscritto nella propria immagine del mondo, si può praticare solo a condizione che vi siano pari diritti per tutti.
Concludo con queste ultime considerazione, che vogliono essere uno stimolo a noi tutti a non fermare il cammino. Ciò che possiamo chiedere alle comunità e ai singoli credenti, delle differenti espressioni religiose, è l’assunzione della prospettiva dell’altro (mettersi dal suo punto di vista) e riconoscerlo come persona che è ugualmente bisognosa e cercatrice di salvezza e ugualmente convinta della verità di una certa via per raggiungerla. Questo riconoscimento è la base elementare della convivenza e del dialogo tra credenti delle diverse espressioni religiose. Ma presuppone comunque l’ulteriore consapevolezza che la convinzione e l’appartenenza religiosa non possono essere questione di costrizione, imposizione o divieto, ma solo di libera persuasione e scelta volontaria.
Grazie per l’attenzione!


