L’IMMEMORABILE DELLA COSCIENZA RELIGIOSA
Per comprendere meglio la nostra storia è utile risalire anche alle nostre radici (indo-europee) e al senso religioso, presenti fin dai tempi remoti dell’umanità, nelle antiche religioni. La riflessione storica può aiutarci infatti a individuare il nucleo essenziale del sentire religioso come qualcosa di valido anche oggi.
Possiamo così scoprire che non si tratta di aver a che fare soltanto con miti antichi e desueti, ma che una tale ricerca può pervenire alle radici della nostra avventura umana facendoci rivivere l’importanza storica e antropologica di antiche esperienze.
Ora, questo salto all’indietro è un modo molto importante tramite il quale ci è permesso oggi di dilatare il nostro orizzonte storiografico, dilatando così la nostra conoscenza e la nostra visione dell’uomo, di venire a conoscenza della grande «struttura spirituale» dell’umano.
Oggi abbiamo esperienze diversificate e osserviamo e valutiamo in modo diverso il passato delle religioni. Possiamo guardare alla storia religiosa dell’umanità da un punto di vista «teologico», e cioè a partire dall’esperienza della fede cristiana, da un punto di vista «antropologico» che esalti i valori dell’uomo e della sua progressiva spiritualità, o, infine, potremmo osservare il passato puramente da un punto di vista «storico-critico» dove è in causa soltanto la documentazione storica e la critica storica del rapporto tra le varie religioni.
Se diversi sono gli approcci, è pure utile ed è interessante cercare una sintesi di questi diversi paradigmi. Credo che sarebbe vantaggioso abbandonare tutti i pregiudizi e guardare alla storia religiosa dell’umanità senza condizionamenti e con animo ben disposto verso quello che potremmo chiamare dal punto di vista teologico una «prima economia della salvezza». Dal punto di vista antropologico, del resto, abbiamo bisogno di riscoprire l’«essenza» della nostra eredità spirituale passata, abbiamo bisogno di poter sognare ancora quel «pre-religioso» della coscienza che non riusciamo più a trovare, abbiamo l’esigenza di sondare il «pre-categoriale» della nostra esperienza al mondo là dove si nasconde ancora la memoria di un segreto che forse non riusciremo mai a rivelare.
L’estraneazione all’esperienza religiosa di cui oggi viviamo sia l’esigenza, per una specie di indebita sudditanza alla ragione, sia il rimorso per una sorta di disorientamento quasi invocato e sofferto nello stesso tempo, ci crea, per così dire, un debito importante verso il passato e costituisce la premessa per un nuovo approccio al passato dell’umanità (A.N.TERRIN).
Stando così le cose e partendo da questo desiderio, coniugando istanze teologiche, antropologiche e storico-religiose, potremmo dire che, se da parte teologica ci sentiamo eredi di qualcosa che è stato totalmente trasformato e innovato attraverso la rivelazione, da parte antropologica e storico-critica potremmo sentirci invece eredi di un patrimonio che abbiamo perduto e con enorme difficoltà potremmo ora recuperare.
Da un punto di vista storico e antropologico, potremmo dire che abbiamo per troppo tempo guardato con sufficienza e distacco alle religioni antiche ritenendole figlie di «un dio minore», ritenendo che traducessero l’esperienza religiosa in maniere ancora puerile, opaca, non riflessa, non sufficientemente mediata dalla ragione. E secondo questa operazione pregiudiziale, abbiamo compiuto già previamente anche se inconsciamente due operazioni limitanti: abbiamo omologato l’orizzonte entro cui si pone la religione cristiana in quanto «più razionale» con il mondo dell’esperienza di Dio, dimenticando che chi parla di «religione», parla essenzialmente e solamente «latino», dato che non esiste una radice comune indo-europea per il termine «religione». Abbiamo in tal modo ristretto indebitamente l’orizzonte dei nostri interessi. In secondo luogo abbiamo ascritto alla visione del Dio «cristiano», in quanto rivelato, un contenuto «ultra-semantico» e «super religioso» basandoci sull’unicità del dato biblico. E la rivelazione biblico-cristiana con un colpo di spugna ha cancellato tutti gli altri dèi. Con l’introduzione dell’unico Dio ci siamo allontanati dagli altri mondi religiosi.
Sicuramente tale operazione ha portato a una purificazione e una sobrietà importante nel campo religioso e a una specificità in ambito cristiano. Ma forse, antropologicamente, abbiamo ereditato anche qualche conseguenza negativa: ora quest’unico Dio a malapena sopporta d’essere posto accanto agli dèi dell’antica Grecia e della Roma classica, di quegli dèi che abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola attraverso la letteratura greca e latina, studiando le loro storie, i loro dissapori, i loro vizi e le loro virtù. La gelosia del Dio d’Israele verso i popoli limitrofi è diventata la gelosia del Dio cristiano rispetto alle figure degli altri dèi posti in modo definitivo molto più in basso, considerati come dèi di una preistoria senza voce, dèi «oziosi», dèi che per la storia del presente non hanno più nessun significato. Il monoteismo ebraico infatti è sempre stato anzitutto un esclusivismo.
Su questo sfondo abbiamo costruito il nostro processo di comprensione degli dèi delle grandi religioni antiche secondo le coordinate di altrettanti antropomorfismi tanto ingenui quanto improponibili. Quando, poi, direttamente o indirettamente, dalla nostra visione di fede cristiana, abbiamo sentito parlare delle altre religioni antiche come ad esempio della religione dell’Egitto, del mondo religioso babilonese, del mondo iranico, tutto ci è parso appartenere ad un passato tanto remoto e tanto ambiguo da non poter riservare a quelle religioni se non un angolo di commiserazione o forse un misto di curiosità e di indulgenza per una fase troppo debole del pensiero umano, anche se, per altro verso, abbiamo sentito dire che anche il nostro cristianesimo è in qualche modo debitore verso quei mondi religiosi antichi.
In definitiva, avevamo vissuto non soltanto la novità di Dio «Padre di Gesù Cristo», ma avevamo ceduto in qualche maniera anche al pregiudizio illuministico e avevamo trovato la possibilità di rinforzare tale pregiudizio ritrovando nel mondo cristiano l’unico vero baluardo religioso marcato dalla rivelazione capace di contrastare adeguatamente un mondo troppo fragile religiosamente, un mondo dove gli dèi potevano e dovevano essere assimilati agli idoli, in modo tale che l’abbassamento di quei mondi potesse fare emergere per contrapposizione la forza assoluta dell’unico Dio.
Ma forse questo dettato non era iscritto anche nella visione biblica a cui la visione cristiana si richiamava? Che cosa infatti dice la Bibbia? «Tutti gli dèi delle nazioni sono un nulla, ma il Signore ha fatto i cieli» (Sal 96,5) ed è per questo che «Dio si alza nell’assemblea divina, giudica in mezzo agli dèi» (Sal 82,1). Il Dio d’Israele ha dunque sconfitto gli idoli, battendo le nazioni idolatre: «Tutte le nazioni sono come nulla dinanzi a lui; egli le reputa meno che nulla, una vanità» (Is 40,17). E si sa bene che gli ebrei, anche al tempo dei romani, erano famosi per il loro monoteismo rigido. Ne abbiamo testimonianza ad esempio dallo stesso Plinio il Vecchio il quale li definisce «un popolo che si distingue nell’oltraggiare le divinità»1.
Tutto ci appariva chiaro. Gli dèi delle altre religioni erano dèi falsi, erano gli idoli da cui dovevamo allontanarci. Non si poteva più nutrire alcun dubbio sulle ombre che assediavano i mondi antichi, sulla mancanza di religiosità e sulla «meschinità» di quei mondi rispetto alla nostra esperienza di fede. Ma così facendo, abbiamo sepolto un pezzo della nostra esperienza antropologica passata, l’immemorabile del nostro essere religiosi. Secondo la visione cristiana classica, la storia delle religioni antiche costituiva un passato non soltanto lontano e oscuro, ma anche «irrazionale» e «colpevole», a cui ora finalmente faceva da contro-altare il mondo «solare» della fede cristiana; la storia passata era una realtà che dovevamo confinare a buon diritto nel mondo del paganesimo, come qualcosa di appartenente a uno stadio inferiore e primitivo di vita. In fondo, non abbiamo mai pensato che i mondi religiosi delle grandi civiltà antiche fossero dissimili dalle religioni a carattere etnografico, dato che sia gli uni che le altre si dibattevano tra animismo, politeismo e panteismo cadendo inesorabilmente sotto i colpi della nostra scure cristiana e razionalista allo stesso tempo.
Certo, non stupisce che i cristiani contestino una concezione del mondo troppo antropomorfizzata. «Dio è amore» annuncia Giovanni nella prima lettera (1Gv 4,8.16). Ecco la grande, nuova rivelazione. Platone nel Convito si chiedeva se l’amore (eros) fosse un dio. Qui, nel cristianesimo, si afferma non che l’amore è un dio, ma che «Dio è amore» e Giovanni usa il termine agapé per eliminare qualsiasi riferimento alle teogonie e cosmogonie delle religioni del passato.
Il cristianesimo in certo senso ha desacralizzato e secolarizzato la natura e la società, ha allontanato le potenze divine dal mondo, esprimendo bene e mettendo in atto quel progetto che il filosofo M. Gauchet riconosce al cristianesimo, quando afferma che la «religione naturale» trovò la sua fine con l’avvento del cristianesimo2.
Ma noi ci domandiamo: tutto questo nuovo assetto, che ha creato una svolta fondamentale per il mondo delle religioni, ponendo nel cristianesimo dei presupposti ottimali per l’esperienza di Dio e del divino, non si è alleato anche troppo facilmente con una ragione «secolarizzante» di cui oggi paghiamo le conseguenze?
Credo che ora non siamo più sicuri di avere seguito il cristianesimo secondo le sue vere indicazioni. Dubitiamo ora di aver interpretato il passato in maniera equanime. La
ragione, nell’era moderna avrebbe fatto in ogni caso la sua strada, ma era necessario che quella strada fosse battuta allo stesso modo e con le stesse contrapposizioni anche dalla fede cristiana? Si può affermare che c’è stato un momento «catartico» (purificatore) necessario di cui si fece interprete il cristianesimo rispetto a tutte le divinità antiche, attraverso un nuovo orizzonte di fede e di rivelazione, ma poi quella fede servì anche a creare contrapposizione e irrigidimento spesso in un’apologetica formale estranea all’esperienza religiosa. Questo atteggiamento ci ha fatto chiudere gli occhi davanti alla storia delle religioni antiche, considerando quei mondi alla stregua di una pura fantasia letteraria, se non addirittura come un frutto di un aberrante fraintendimento dovuto allo spirito umano.
Ora, dopo quella messa in atto di un processo di demonizzazione dei mondi religiosi antichi, il poter ritornare a riflettere sulle religioni antiche significa anche crearsi un nuovo spazio di verità liberatoria: significa sentire l’esigenza di vivere finalmente un cristianesimo che non ha bisogno di creare contrapposizioni o rotture, ma di più il senso della «partecipazione» all’esperienza religiosa nel concerto delle altre religioni, significa vivere la fede cristiana in maniera più «ecumenica» e «inter-religiosa», senza tuttavia coniugarsi con sincretismi o contaminazioni. Significa declinare il passato in ordine al presente, senza indebiti indebolimenti della fede cristiana, ma anche nella consapevolezza che la profonda esperienza religiosa dell’umanità deve semmai essere sentita ancora oggi come un «preludio» alla fede cristiana e non essere posta come un’alternativa rispetto al cristianesimo.